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mercoledì 29 gennaio 2020

"Se non credi in te stesso, scordati che qualcun'altro lo faccia per te". (Kobe Bryant)





Ero in seconda media e correva l'anno scolastico 1996/1997, la ricreazione era appena finita e una volta che ci siamo messi in fila per ritornare in aula, il mio compagno di merende/partite di basket dell'altra sezione mi urla  "Cech, Basta Michael...Kobe Bryant! Segnati questo nome, vedrai ben un domani...!" 
Da li è nato tutto. Una "nuova ossessione", come cantavano i Subsonica. Da quella stagione NBA 1996/1997, dove la classe dei rookie era una delle più esplosive di sempre. 
L'anno d'esordio di molte stelle della mia generazione (Vedere per credere ), l'anno in cui i miei voti calarono per la scoperta di NBA Action sul canale Koper/Capodistria e l'ascesa al trono di quello che col tempo è diventato una leggenda. 

Ero il classico ragazzino che stava sulle sue. Confuso e preso di mira dagli insegnanti. Ma son bastati trenta secondi o poco più, il tempo di una pubblicità (ovviamente sua) e l'aforismo utilizzato come titolo a far cambiare l'andazzo della mia vita. "Se non credi in te stesso, scordati che qualcun'altro lo faccia per te". 
L'avevo scritta anche sul muro (in compensato) di camera mia e li era rimasta fino a quando non ho dovuto togliere tutto per dipingere i muri qualche anno fa. Questo alla sinistra del letto, sopra il letto invece c'era il poster di Michael Jordan a braccia aperte con la citazione di William Blake "Nessun uccello sale troppo in alto, se non con le sue ali".  La determinazione, evidentemente, non mi è mai mancata. 
Di cantonate nella vita ne ho prese, ma quella che col tempo poi è diventata "Mamba Mentality" mi ha aiutato anno dopo anno ad acquisire una fiducia invidiabile nei miei mezzi: Nella pallacanestro ottenere molti minuti in partita concentrandomi in difesa -mia qualità-, arrivando a giocare pure titolare in qualche partita. 
Con il basso, da autodidatta, fare passi da gigante e ottenere dei bei risultati personali e... questo blog. Dove curo alla perfezione ogni dettaglio, trasportare esattamente dalla mia mente alla pagina web quello che voglio scrivere.

Per non parlare del posto di lavoro, li do il meglio di me e come faceva lui in campo so essere un vero rompipalle se qualcuno lavora male: Citando il #8/24 dei Lakers "Essere un leader non vuol dire dare pacche sulla spalla e cantare Koumbaya, vuol dire saper trascinare un gruppo e portare tutti al tuo livello. A costo di farsi odiare". Un team lavorativo è come una squadra: se tutti svolgono il proprio lavoro in maniera corretta ed efficiente, tutto va come dovrebbe andare. Ma a differenza di chi punta al titolo come campione, non sempre sul lavoro va così.
Come spesso tendo a dire nella vita di tutti i giorni, sono solo l'ultimo degli stronzi rispetto a persone carismatiche di questo livello, come il futuro Hall of famer del 2020. Ma gli devo tanto, proiettando tante esperienze personali anche sportive nel mondo che mi circonda.
Per esempio a lavoro, di recente. Purtroppo non è stato rinnovato il contratto ad una ragazza determinata ed ambiziosa. Parlando con lei avevo già capito tutto: Non solo ci teneva ad una conferma; ma di come lavorare in un negozio era per lei un sogno, un traguardo (visto il periodo sicuramente non facile non solo per la sua generazione, ma per tutti). Quando mi han detto che, l'ultimo giorno era in lacrime, ho ripensato a quella maledetta ultima partita del mio primo anno nella squadra locale nel 1997/1998: Eravamo in pochi ma speravo di giocare e di dare il mio piccolo contributo. Niente. M.C. Non entrato e partita persa.
In spogliatoio, come questa ragazza nella sua situazione, ero in lacrime. Non per la partita persa, ma perché l'allenatore non ha creduto in me. So cos'ha provato.

Quand'era passata a salutarmi a fine giornata mentre lavoravo sentivo che dovevo incoraggiarla, perché anche se per vie traverse ci sono passato anche io e so come ci si sente. Continuerò gradualmente a sostenerla, anche nella scrittura, sua grande passione.  Prima di sentirsi un leader o comunque un trascinatore, c'e l'amico. L'essere umano che vive d'emozioni ed empatia.
Più o meno la stessa cura e gli stessi consigli che il Black Mamba donava e insegnava a sua figlia Gianna, scomparsa anche lei nell'incidente aereo.

Non devo dire grazie solo a Kobe, ma ad una favolosa "combo" che ho creato nel corso degli anni e che mi ha aiutato ad avere una consapevolezza dei miei mezzi e soprattutto dei miei limiti (spero d'essere anche qui d'aiuto, a modo mio): 

Come spiegato in questo post, la Mamba mentality da lui tramandata si caratterizza in questi cinque punti: 

1) Alla base di tutto ci dev'essere per forza la passione
2) Ossessione e la cura per i dettagli
3) Per vincere bisogna essere "Relentless": Competitivi a qualsiasi costo
4) Resilienza, resistenza alle avversità
5) Superare le proprie paure.


Ho associato questi cinque punti ad un consiglio, una pratica che mi aveva insegnato mia madre quando ero bambino per affrontare la paura delle punture per via delle flebo. Ovvero l'esperienza mentale sintetica: Praticamente visualizzare nella propria mente determinate azioni in maniera perfetta e positiva. Che sia l'esame per la patente, una partita di basket... (con la maturità, mamma, non ha funzionato). Una specie di realtà virtuale presente nella mente dove tutto va a buon fine secondo i nostri piani. 
Il risultato, a mio dire, ha sempre dato i suoi frutti salvo ovviamente un caso. 
Gli stessi post che scrivo, per tre quarti delle volte, li ho già scritti in questo "monitor immaginario" e devo solo ricopiarli.

A livello umano sono e sarò sempre grato a questa persona e questi valori che ho saputo e continuerò a mettere in pratica. A quest'uomo americano dall'accento romagnolo durante le sue interviste in italiano.



Per quanto riguarda lo sport in generale, probabilmente gli devo tutto, forse troppo:

Innanzitutto non solo l'amore per la pallacanestro, ma per tutti gli sport. E' risaputo di come, durante le varie olimpiadi a cui partecipava con la maglia del Dream Team, lui andava a vedere gli altri sport proprio per capire e inserire varie tecniche nel suo stile di gioco. Un perfezionista.
Come scritto in vecchi post, ho praticato vari sport, dal calcio al nuoto. Ora sono tutt'uno con la Mountain bike. Ma tutto, se visto in un'altra ottica può essere d'aiuto per migliorare ulteriormente le proprie prestazioni fisiche e rendere al meglio.
Niente barriere che dividono la diversità e la forma di una palla o di un campo, ma trovare qualcosa di nuovo che riesce ad affascinarti e farti dire "perché no, potrei provare a cimentarmi in qualcosa di nuovo". Anche se le mie ricerche sportive recenti, sono sport poco conosciuti o per molti usciti da chissà quale universo parallelo.
In cuor mio però c'e solo uno sport che tutt'ora è capace di farmi dire "ok, indosso di nuovo le mie Adidas EQT elevation (le Crazy '97. Per chi non mastica la pallacanestro la replica di quelle che indossava durante la gara delle schiacciate vinta nel 1997) e mi rimetto in gioco". (Amici friulani siete avvisati: se vi manca un giocatore fatemelo sapere, anche se sono incredibilmente fuori allenamento e il "91" non è più il numero di Rodman, ma il mio peso).

Perché Kobe era ed è anche questo e quelli come me lo sanno.

Capace di andare avanti. E dovremmo prendere esempio anche noi suoi tifosi, di questa caratteristica. Forse col magone, ma pronti ad affrontare nuove sfide. Come il passaggio dal Kobe schiacciatore al letale Black Mamba, sotto la guida di un certo "Coach Zen" noto ai molti.

Il giorno del tuo ritiro suonavo in un locale. Ricordo ancora che avevo anticipato "Wind of changes" degli Scorpions come un vento di cambiamenti per il mondo dello sport.
Posso renderti omaggio in mille modi, dalla tua "Dear Basketball" che a distanza di anni continua a farmi commuovere, allo spot "The conductor" della Nike che avevi girato proprio in quel periodo per l'addio al basket.

Preferisco farlo così, con una foto di quella che effettivamente è stata l'ultima volta che ho suonato dal vivo con un gruppo durante il tuo ritiro (a prescindere dal fuso orario).
E il pensiero che durante la notte del tragico incidente avvenuto domenica 26 Gennaio, ero al Carnera a vedere il nostro amato basket. Assistere ad una partita che mi ha fatto letteralmente innamorare di Artur Strautins, nuovo acquisto della mia APU Udine. Una vittoria incredibile contro Ravenna, la prima in classifica. Innamorarmi per l'ennesima volta di quella palla a spicchi che ci ha mandato la testa in casino più di una volta.

Rimettendomi al lavoro, perché il giorno è fatto di 24 ore. E come mi hai insegnato tu, nessuna di queste va sprecata, ma portata a livelli irripetibili.

Foto di repertorio: Anno 2016











martedì 12 novembre 2019

"Gioco come sono", di Luigi Datome con Francesco Carotti



Caro Gigi

Ho letto il tuo libro e pensavo di "recensirlo" così sul mio blog, come una lettera scritta dal più classico degli ammiratori sportivi al suo beniamino. Una lettera/post che difficilmente leggerai perché non ho i social noti a tutti che mi permettono di condividerla, ma la fantasia e la creatività sono validi alleati. 
Innanzitutto ti rassicuro: non sono uno dei tanti mitomani da te descritti. Nel mio piccolo, da 35enne, ho avuto dei brevi momenti di gloria emozionanti come tutti gli amanti del nostro sport, quindi so la fatica e il sacrificio che hai messo nel tuo percorso lavorativo per ottenere risultati nonostante la diversità delle prospettive, anche se mi sono fermato alla categoria under 21 provinciale giocando in squadre locali, scaldando panchine e sbucciandomi ginocchia per ogni palla recuperata, da buon gregario. 

Posso dire con piacere che sto parlando bene a vari amici e conoscenti delle parole da te usate nel raccontare la tua storia, spero che questo passaparola li porta ad acquistare il tuo libro o al limite chiedermelo in prestito, anche per l'enfasi che metto nel descriverlo che è pari a quella di Flavio Tranquillo durante le telecronache della nazionale da te capitanata. Questo perché ne parlo non solo ad amici che masticano qualcosa di pallacanestro, ma anche ai vari lettori che, come noi, divorano libri su libri e ammirano questa tua passione. A proposito, grazie per la recensione su Caino di Saramago scoperta "abusivamente" su instagram -visto che non sono iscritto-. Se non era per te non lo scoprivo.
Persone con valori come i tuoi se ne incontrano raramente e come spesso accade quando leggo, ho rivisto nelle tue avventure qualcuno che in qualche modo conosco fin troppo bene: il mio capitano nei tre anni fatti nella squadra che, con alti e bassi, mi aveva svezzato dai tiri fatti al campetto coi cugini e che, destino vuole, aveva ed ha tutt'ora gli stessi colori del tuo Fenerbahçe. Non solo capitano, ma un ragazzino (ai tempi) cresciuto assieme a me ed era pure mio vicino di banco alle elementari. In quel periodo vedevo la pallacanestro come da te descritta nei tuoi 15 anni: Il mio poster in camera non era di Allen Iverson ma una convocazione di All Star che partivano dai Bulls di Jordan arrivando a dei giovani Kevin Garnett ai tempi di Minnesota o delle meteore come Shareef Abdul Rahim. Il tuo idolo per me era come punto di riferimento riguardo l'altezza, visto che ripetevo continuamente "Almeno arrivare a 1.83 come "The Answer" ", fermandomi poi miseramente a 1.76.
Sarò sempre grato al "capitano" Enrico perché come te aveva una leadership innata. Io ero solo un malato di NBA e LegaBasket (quando il "pando" Bonora e "La mosca atomica" Pozzecco si scontravano per lo scudetto). La lavata di capo che mi faceva puntualmente mi riportava alla realtà giocata e non immaginata, anche se per me la pallacanestro era evasione dall'anonimato. Nei periodi scolastici ero il Sig. Nessuno, ma quando giocavo e indossavo la mia canotta col 18 mi sentivo bene, come Superman col mantellino, a prescindere dal minutaggio. 
Il poster della nazionale, come quello della Snaidero Udine, era sempre presente. Leggendo tra le righe del tuo libro, quella del mio poster era la nazionale medagliata "Più forte di sempre", come la chiami tu. Con questo non voglio dire che quella attuale fa pietà, tutt'altro. A parole tue "Ad oggi ogni nazione ha un giocatore che milita nell'NBA" e credimi che si, mi mangio le mani se perdete una partita, ma mi limito tra me e me a battute sarcastiche e finisce li, ricordando le mie piccole sconfitte e di quando potevo toccare il cielo con un dito. La cosa che mi rattrista, a detta della pallacanestro italiana, è ovviamente il minutaggio degli italiani in un campionato dove gli americani spesso vengono presi dalla G-League, e tu sai dove voglio arrivare visto che l'hai scritto. Vedo comunque nuovi prospetti qua e la e sono comunque molto positivo per il futuro azzurro. Da qualche parte il feedback deve pur arrivare, non trovi?
Oltretutto tra i tanti ricordi associati alla nazionale, probabilmente quello più bello è quando vi ho visti a Trieste nel quadrangolare del quattro Agosto del 2014. Parafrasando le tue parole, quando hai la mano sul petto, vestendo l'azzurro e senti l'inno l'emozione provata è incredibile. Posso dire altrettanto da tifoso. Vi vedevo fare il riscaldamento, notavo dall'altra parte un Mirza Teletovic a caso che parlava italiano meglio di me con alcune persone del pubblico e, durante la partita contro il Canada, i due canadesi (tra i tanti convocati) Sacre e il tuo ex compagno Kelly Olynyk che davano un simpatico siparietto ma per le espressioni facciali. Usando le tue parole "Vestire l'azzurro è il sogno di tutti i bambini che si affacciano nel mondo della pallacanestro (e anche degli altri sport)", Chi si è perso per strada come il sottoscritto vede in voi giocatori di puro talento il sogno mai realizzato e vi dona il tifo più caldo...o esagitato. Anche se nel mio caso mi sono calmato nel corso degli anni, per la gioia di chi di solito si siede vicino a me.


Il capitolo da te scritto, "Itaca", dedicato alla tua Sardegna, mi ha aperto gli occhi su tante cose in generale.
Innanzitutto ho notato come voi sardi e noi friulani siamo caratterialmente simili. Testardi, orgogliosi della propria terra e dediti al lavoro, concentrati. Ma una volta rotto il ghiaccio con le persone o gli sconosciuti siamo tutti amici di tutti. Lo so per certo perché nel mio comune c'e una comunità sarda molto elevata. Una similitudine, quella tra Sardegna e Friuli, che noti sicuramente durante manifestazioni internazionali vestendo l'azzurro: Mi ha donato un meraviglioso sorriso vedere la bandiera del Friuli vicino a quella della tua regione durante il mondiale in Cina. Due bandiere identitarie che tu e Dada Pascolo, anche se non era tra i convocati, riconoscete molto bene ovunque andate. La cosa buffa, se vogliamo, è che penso di essere uno dei pochi friulani che non ha con se la bandiera che lo rappresenta (eresia!), in compenso magicamente ho trovato in camera mia una bandiera dei quattro mori, sicuramente donata da qualche amico di famiglia a mio padre che, disordinato com'è, ha pensato di regalarmela senza mancare di rispetto a tutti voi piuttosto di perderla.
Tu l'hai chiamata "Itaca", io la chiamo "Alaska", ripreso ovviamente ripreso da "Nelle terre estreme". Perché dopo alcuni viaggi, come te (e come Alexander Supertramp in questo caso), la pace la riesco a ritrovare nel bel mezzo del verde che mi circonda. Evadere da questa società malata, come la chiamava Alexander Supertramp...

"Alaska Alaska.
Dritto, sparato lassù nel mezzo...nel bel mezzo, cazzo. Solo io e basta, cioè senza, senza un cazzo di orologio, niente mappa...niente accetta, capisci? Stare semplicemente la in mezzo fra le montagne, i fiumi, il cielo." (Parafrasando un monologo tratto dal film "Into the wild")
Leggendo libri circondato dalla natura e scoprire poco per volta posti nuovi nelle vicinanze che aspettano solo di essere ammirati. Anche se a differenza tua non ho instagram per fotografarli e condividerli. 
Spero un giorno di poter visitare la tua meravigliosa "Itaca", come la chiami tu e chissà, integrarmi in questa realtà non tanto diversa dalla mia, se non per l'elemento naturale.



Ce ne sono di cose di parlare, in queste tue 254 pagine...lascio per ultimo questi due punti a mio dire fondamentali:

Spesso hai menzionato lacrime e allenatori: Per un percorso come quello dell'under 21 azzurra che stava per finire o per l'approccio iniziale che hai avuto con la nazionale in giovane età (o quella sera a Detroit da solo con il Cointreau, anche se le lacrime non c'erano).
Ricordo le mie, era l'ultima partita di playoff categoria allievi ( o forse ragazzi?) del 1998. Eravamo in sei, mi son detto "Cazzo, se non mi fa giocare oggi...". Morale della favola aveva chiamato per forza di cose un '85 per avere un po' di polmoni in più. Avevamo perso, io (anche se ero ancora acerbo su certi aspetti), non avevo giocato e non avevo potuto aiutare i miei compagni di squadra al passaggio del turno. Di fronte a me in spogliatoio un mio caro compagno piangeva per la sconfitta. Le mie, di lacrime, le avevo versate per chi non credeva in me. Volevo già alzare bandiera bianca e salutare prematuramente quello che poi col passare degli anni era diventato un gruppo di persone a cui ho voluto e vorrò sempre bene.
A distanza di anni e di tanto odio provato per quel coach, posso solo dirgli grazie. Perché avevo passato l'estate a lavorare sui fondamentali imprecando con una sete di rivincita da fare invidia a molti, non ero un "caschetto biondo che non smetteva mai di palleggiare" citando il tuo ex compagno di squadra Andrea Pecile, ma capelli a parte...poco ci mancava: Il pallone da basket era sempre con me e, come spesso accade, citando un noto slogan di un brand a te conosciuto (visto le tue scarpe gialle) "Impossible is Nothing". Così come il cambio di coach, quella stessa estate, che mi aveva dato il giusto valore fin dalla prima partita .
"Potevo restare li ad amareggiarmi, invece mi sono allenato e allenato. Quando nessuno crede in te, qualunque cosa che fai è positiva", diceva Gilbert Arenas. La lezione l'avevo imparata prima del tuo libro ovviamente (era l'estate del 1998), ma l'insegnamento morale da te ricevuto per quell'occasione passata l'ho imparato solo dopo averlo chiuso una volta finito.

La seconda cosa è che come te, suono anche io (il basso, però). Ci sentiamo sempre dire la solita frase "Mi suoni qualcosa?" e anche qui ti ringrazio per l'empatia trasmessa...



...Serve aggiungere altro?

Non posso far altro che ringraziarti, continuare a consigliare il libro alle persone a me vicine (o a quelle che leggeranno questo post) e consigliarti a mia volta "L'inquietudine delle isole" di Silvia Ugolotti. Vale come l'abbraccio di un tifoso nostalgico d'altri tempi, lontano da selfie e momenti da mitomane. Come quel bambino che ti salutava durante l'allenamento del Fener (Bahçe! ...olè!)

Citando sempre Pecile... "Stai sereno...sempre...!"

Mirko











lunedì 12 agosto 2019

"La nazionale di basket siamo (anche) noi." (cit. La giornata tipo)




In questi giorni d'Agosto, complice anche il lavoro frenetico di commesso in un supermercato in questo periodo, il tempo per dedicarmi al blog è ridotto. (Soprattutto se sono reduce dalle due settimane di ferie estive e la mia più classica delle "sessioni di flebo" in mezzo).

Ciò non toglie che accumulo idee e bozze su bozze per eventuali post futuri e non. Complici i vari libri che leggo o leggerò ed eventi ricorrenti e futuri. Più che bozze sembrano pezzi di un puzzle che, messi assieme, formano non solo le mie riflessioni che danno titolo al blog. Ma anche la mia personalità, un variopinto biglietto da visita.
Tra i tanti eventi c'è per esempio il mondiale di basket in Cina, da sabato 31 Agosto a domenica 15 Settembre e una passione sempre presente per questo sport. Una delle mie ragioni di vita, parafrasando Homer Simpson e la birra.

Dire che sono nato con la palla da basket in mano, come direbbero i più esaltati, è sbagliato. E' vero, assieme a tre compagni delle elementari avevo praticato minibasket durante la prima elementare, ma di quel periodo ricordo obiettivamente poco, se non le girelle mangiate durante il tragitto e la cura nel preparare il borsone per le partite (rituale pignolo e scaramantico portato pure in età adulta): in quel periodo come spesso accade avevo provato nuoto e anche calcio. Poi, fino al 1995 numerose medaglie di tuffo acrobatico sul divano.
Qualcosa, poi,  è cambiato.
Già, L'estate di quell'anno l'avevo trascorsa dai parenti in provincia di Torino. I due cugini più grandi di me mi portarono ai campetti chiedendomi se volevo giocare a basket. In cuor mio sentivo che quella palla a spicchi mi chiamava, pari pari alle sirene con Ulisse. Il resto è il più classico dei circoli viziosi: Inizio le medie in una scuola nuova dove ci sono anche i campetti di basket (e non venivano utilizzati per altre partite di calcio) e scopro il magico mondo dell'NBA e della Legabasket. Letteralmente un "uomo nel pallone", citando i Matrioska e una loro canzone che tanto adoro.
Ricordo ancora quando avevo scoperto NBA Action su Koper/Capodistria quel Lunedì sera.
Sorrido perché ironia della sorte il video realizzato dalla giornata tipo inizia citando proprio il classico canestro appeso in camera e il "Not in my house" con ditone di Dikembe Mutombo: Beh, cambiando canale avevo trovato proprio il programma già iniziato con un focus sul centro congolese degli Atlanta Hawks (in quel periodo).
Ero talmente su di giri che in camera tiravo da tutte le posizioni possibili, ripetendo i commenti e i nomi visti nel curtside Countdown elencati dal grande giornalista e telecronista sportivo Sergio Tavčar.
Il 4 Maggio del 1996 poi avevo chiesto una cosa sola per il compleanno, anzi due: Palla da basket e canestro da mettere in giardino, anche perché mi allenavo nel terzo tempo tra le vigne di casa mia "schiacciando" sul tubo del pergolato con un vecchio pallone da calcio -Come un ragazzo nel video postato- (oppure di sottomano con una triste cassetta in legno di patate bucata appositamente e fissata alla "bene e meglio" sul vecchio tubo dell'altalena sotto il caco). Da quel giorno per molti anni successivi, per la gioia dei vicini ero un continuo palleggiare e recuperare la palla nei vari giardini oltre la rete. Aumentando il (facile) livello della pallacanestro praticata tra le mura di casa con amici e centrando tiri impossibili alla Steph Curry: da "dietro l'abete" (come distanza), dal marciapiede delle suore (vicine di casa in quel periodo), l'alley oop per il ramo di fico che la buttava dentro e molte altre soluzioni degne degli Harlem Globetrotters e molto altro ancora.
Stava diventando tutto troppo facile e come detto in altri post volevo alzare l'asticella, difatti così mi sono iscritto nella squadra di basket del paese vicino. Grande società, grande squadra.
Proiettato in un'altra realtà, quella agonistica, ma con un grande cuore e tanta passione, sono riuscito a ritagliarmi molti minuti nel secondo anno: 1998/1999. Non sono mai stato una guardia tiratrice, ma amavo il confronto con gli altri compagni e avversari della zona.
La mia fortuna è stata avere un coach fondamentale come Marini, che era riuscito a sgrezzare alcuni miei difetti e a rendermi un buon difensore. Uno di quelli che "non segnerò venti punti a partita...ma ne devi mangiare di polenta, prima di riuscire a smarcarti dal sottoscritto" ( Argomento già trattato in uno dei miei primi post: " Wonderful losers: Vita (di tutti i giorni) da gregari").
Poi si sa, molti alti e bassi con (a mio dispiacere) cambi di allenatori poco complici con l'unità di squadra e una magia che si è evaporata col tempo. Anche perché gestire un branco di 15/16enni non è mai facile, figuratevi se un nuovo coach -non della zona- non ottiene risultati, fa giocare solo sei persone su 12 e dopo un po' getta la classica spugna: Il risultato? Noi della panca avevamo iniziato a dare picche per le convocazioni, complice anche il fatto che non ci considerava nemmeno per gli schemi, e gli allenamenti si trasformavano in partitelle anche di calcetto.
Ma a parte questa triste fine, sono tutt'ora legato ai colori di questa squadra, colori di un paese che mi ha dato tanto rispetto al mio comune (sempre più pettegolo e deludente): Oltre alla salute, visto i ricoveri in day hospital e attualmente il lavoro, in passato pure lo sport.

Ovviamente avevo ripreso a giocare in un'altra società agonistica, ma non è stata la stessa cosa. Troppe primedonne e allenatori che, anche li, non consideravano il mio impegno e le mie qualità difensive (dicesi "becero campanilismo tra comuni"). Tranne uno che, venendo da fuori, mi premiò aumentando il minutaggio in questa nuova avventura e facendomi pure partire titolare in una partita.
Quindi, tanto schiappa in fondo in fondo non ero.
Quello è stato il classico canto del cigno: Ormai 21enne e sempre citando le parole del video mi consideravo bravino per far parte dell'under 21 di qualche squadra. Ma quella società, per quanto fallimentare in quel periodo, non credeva nei giovani e ancora meno nel progetto dell'under 21.



Visto e considerato che senza basket non so stare, dio -o chi per lui- benedica i campetti.


Foto (fatta a tradimento) di repertorio del 2014: parafrasando futurama "più che un gancio-cielo sembra una mossa da soubrette"




I campetti da basket sono sempre stati il mio habitat naturale, alla fine. Aria aperta, tiri ignoranti alla Gianluca Basile e un mix di risate, cazzate e incazzature. Penso che di tutti questi periodi passati ai campetti i ricordi più belli sono tanti: In particolar modo due su tutti. Le partite con un mio amico di quel periodo (ed ex compagno di squadra di quell'ultima società) nell'estate del 2004: Partite e poi via a vedere le olimpiadi a casa sua con una pizza vicino e le urla, gli abbracci per la vittoria dell'argento dietro l'oro vinto dall'Argentina di Manu Ginobili e davanti al bronzo americano del Dream Team.
Il secondo la lunga estate del 2014 fino ai due anni successivi: Io e un mio caro amico avevamo ancora fame di basket. Avevamo creato un gruppo fittizio di amici e conoscenti a dir poco casinisti ma con voglia di fare e uniti da questo sport. Con ironia, visto che in NBA ci sono gli Hornets, i Bulls, i Raptors e via dicendo... ci chiamavamo "i Ghiottoni di Taipana (con sede a Gemona)". Perché proprio Taipana ancora non lo so, visto che nessuno era di quella zona. Ma suonava bene.
Oltretutto visto il cameratismo e la goliardia che si era creata col tempo oltre alla difesa avevo aggiunto un'arma in più, complice anche il film "Baseketball" scritto, diretto e interpretato da Trey Parker e Matt Stone -gli autori di South Park-. : La psycodifesa. Ovvero dire cazzate insostenibili per riuscire a distrarre l'avversario.
In questo caso però gli europei del 2015 li avevo visti in solitaria: Con le finestre aperte e il volume al massimo e la voce di Flavio Tranquillo che riecheggiava nella via, per una volta, alla faccia di alcuni fastidiosi vicini che per loro "azzurri" e "Italia" significa solo la nazionale maggiore di calcio (dimenticando non solo gli altri sport e competizioni, ma anche partite dell'under 21 e femminile) e puntualmente dettano legge ad ogni europeo o mondiale. Una seconda rivincita, la mia.
Visto che la prima è stata -in termini calcistici- quando l'Italia venne eliminata dall'Uruguay nel mondiale del 2014: la solita euforia non era presente, regnava il silenzio ma da buon provocatore quale sono era una ghiotta occasione per farmi odiare. Apro le finestre e con tutto il fiato che avevo mi affaccio e urlo, con invidiabile sarcasmo... "Che silenzio...come mai? Nessuno che urla forza azzurri? Ah già, l'Italia è uscita dai mondiali. Non fate casino oggi? Comunque ragazzi...forza Uruguay.".

Ora a 35 anni non gioco più. Almeno, la voglia c'e: Ogni mattina durante i miei 20 minuti di corsa sul tapis roulant prima di andare a lavoro, vedo vecchie partite motivazionali ricche di phatos -ultimamente, per esempio, il derby dello scorso anno tra Partizan e Stella Rossa-.
Le occasioni per riprendere sono, probabilmente, nell'aria: amici di amici che hanno giocato in passato con ragazzi che conosco, ex compagni di squadra che passano a fare la spesa e le infermiere che mi sopportano durante le flebo hanno figli o figlie che praticano questo sport.
Ma giustamente bisogna iniziare a fare i conti con altre priorità e nuovi aspetti che la vita ti pone davanti.

Mai dire mai nella vita. Soprattutto se il basket stesso dona così tante emozioni uguali e diverse a molte persone.

Come dice il video "questi ragazzi sono il nostro sogno realizzato".
Da bambino sognavo appunto,  tra le tante cose, una bella carriera cestistica fatta di tanti colori: Quelli locali, visto che come club sono sempre stato un tifoso di Udine (Snaidero prima e ora APU), Europa (la Union Olimpija Lubiana, le partite che vedevo su Capodistria e il loro modo di giocare riuscirono a ipnotizzarmi davanti la tv) e con moltissima fantasia l'NBA.
Sogni di un ragazzino di 12 anni, appunto. Ma che in testa aveva sempre quell'azzurro carico di ricordi e di storia. Azzurro che mi catturò negli anni '90, complice il mondiale in Grecia del 1998 e quella partita persa con il presunto "dream team" fatta con quella che fu chiamata "la sporca dozzina": una nazionale priva di stelle NBA ma che comunque arrivò a vincere il bronzo. Azzurro che mi fece saltare di gioia per l'europeo vinto a Parigi nel '99 e quell'amichevole a Colonia vinta contro gli americani, l'olimpiade finita sul podio con un meritato argento e via dicendo.

Sogno, anche per questo mondiale, una nazionale sulla carta outsider ma che in qualche modo riesce a tirare fuori qualche coniglio dal cilindro. Parlando con amici e gente che mastica questo sport, sento con frequenza la frase "la vedo durissima quest'anno!".
Perché non prendere esempio da quella sporca dozzina già citata? Certo, la nostra bandiera è tricolore, non stelle e strisce. Ma tutto può succedere.

Citando un loro slogan "io amo #italbasket , amatela anche voi".

Forza ragazzi!